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Mariano Pensotti

Vite da romanzo

Conversazione con il drammaturgo e regista argentino Mariano Pensotti

di Rossella Menna

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Nella sua biografia leggo che si è formato come regista cinematografico. Come mai poi è passato al teatro?

Io ho studiato negli anni immediatamente precedenti all’esplosione del cinema digitale, in quel momento girare un film era ancora molto costoso: c’era bisogno di attrezzature, tante persone, di una struttura complessa. Più o meno parallelamente avevo preso a fare teatro e questa pratica ha cominciato a prendere il sopravvento perché era più sostenibile, mi permetteva di fare subito degli esperimenti, di provare a raccontare le cose che mi venivano in mente. Lentamente mi sono accorto che al di là dei vincoli economici, il teatro, molto più del cinema, mi dava la possibilità di muovermi liberamente tra arti visive, video, letteratura. Era un terreno più adatto al mio modo di raccontare.

Cosa voleva raccontare?

Vedevo galleggiare attorno a me tantissime storie. Ogni cosa, persona, ogni più piccolo dettaglio su cui mi cadeva l’occhio mi faceva pensare, fantasticare. A un certo punto con tutte queste idee ho dovuto farci qualcosa, provare a inquadrare i momenti, le immagini, le impressioni. L’esperienza del tempo e dell’effimero è un tema ricorrente nelle mie opere, suppongo abbia qualcosa a che vedere con le ragioni per cui mi sono ritrovato a fare l’artista. Non so relazionarmi in altro modo con il mondo, reagisco a ogni mia esperienza immaginandola già come una storia da mettere in scena.

Vedersi vivere è tipico degli scrittori.

In effetti mi sento un po’ come un romanziere del diciannovesimo secolo…

In che senso?

Ha presente Balzac, Stendhal, Tolstoj? Quei romanzi di formazione ottocenteschi che attraverso storie inventate di personaggi immaginari raccontavano un’epoca? La vita di quelle figure lasciava intravedere tensioni sociali e politiche, sentimenti, raccontava una realtà più ampia di quella in primo piano, ma senza didascalismo.

Cos’è per lei questa tanto bramata “realtà”? A che cosa corrisponde? Alla storia riportata nei libri? Alla politica? Alla vita degli ultimi? A quella dei padroni del mondo? All’attualità raccontata dai media? Oppure alle ambizioni, prefigurazioni e aspirazioni, ovvero alla vita in potenziale di ciascuno di noi?

La realtà è tutte queste cose insieme. Il reale è sempre, inevitabilmente, una costruzione di noi e delle cose attorno, che facciamo in relazione a una data situazione. Ed è questo che m’interessa: cosa fa di noi quello che siamo? Come arriviamo ad essere nel modo preciso in cui siamo e non in un altro? Ma quel che mi interessa più di ogni altra cosa è domandarmi fino a che punto sia trasformabile ciò che per una qualche ragione arriviamo a chiamare realtà.

Ogni autore o autrice predilige un certo tipo di personaggi, in relazione a un dato pezzo di mondo che osserva con più attenzione. Pirandello sosteneva che fossero i personaggi stessi a bussare alla porta del suo studio per richiedere di essere raccontati. Quali figure bussano più spesso alla sua?

Adoro i personaggi che vogliono essere qualcun altro. In tutte le mie pièce ci sono uomini e donne convinti di poter migliorare sé stessi se solo riuscissero a partire, ad andare altrove rispetto a dove si trovano. La tensione tra chi sono e chi vorrebbero diventare è quasi sempre la scaturigine dei conflitti su cui si fondano le storie che racconto.

Sono destinati alla riuscita o al fallimento?

Per alcuni finisce bene, per altri no, per altri ancora non è così chiaro. Per me l’importante è che siano comunque in movimento, che siano attraversati da uno spirito utopico. Vale lo stesso per la società: che si riesca o meno a raggiungere un certo obiettivo di cambiamento è indispensabile che teniamo sempre viva l’immagine di un “noi” potenzialmente migliore.

Come la mettiamo con l’ideologia imperante del “no alternative”?

È un’ideologia in cui non ho fede. Mi rendo conto anch’io che la maggioranza delle persone non ha alcuna fiducia in un futuro diverso, e che negli ultimi anni con l’ascesa delle destre la situazione sta perfino peggiorando, ma io sono sicuro che un’alternativa al sistema capitalistico attuale esiste, e prima o poi la troveremo.

Da dove viene tanta fiducia?

Sono cresciuto nell’Argentina di fine anni Settanta, durante la dittatura militare, negli anni dei desaparecidos e delle Madri di Placa de Mayo, per intenderci. La mia infanzia è stata segnata da un lato da questi fatti, dall’altro dall’ enorme fermento artistico che vedevo crescere attorno a me. Si sentiva forte l’esigenza di inventare storie anche molto lontane dalla situazione politica che vivevamo. La mia generazione era pervasa da questo sentimento di resistenza. Bisognava andare avanti nonostante tutto l’orrore che avevamo davanti. Ogni epoca umana è stata segnata da sangue e conflitti, eppure abbiamo continuato a inventare altre storie possibili.

Per farci coraggio, per riuscire a pensare al futuro come a qualcosa di sensato. Forse è per questo che in un momento storico di diffusa sfiducia in un’alternativa al presente la fiction ci appare a volte puramente evasiva e poco “politica”?

Noi ci siamo convinti di vivere nel momento peggiore della storia umana, ma basta guardare indietro per rendersi conto che non è vero. Le cose sono cambiate, non siamo uguali a come eravamo un millennio o un secolo fa. Se penso ai miei ideali di dieci anni fa, magari scopro che quello che sognavo non si è realizzato, ma sono avvenute rivoluzioni a cui magari non pensavo affatto. Guardiamo alle lotte femministe! Mia madre era una donna di sinistra, progressista; eppure, il suo rapporto col gender era assai diverso dal mio e ancor di più da quello di mia figlia. Tutto questo per dire che anche se sono molto pessimista circa la situazione politica e sociale, sono allo stesso tempo profondamente ottimista rispetto alla possibilità dell’essere umano di rimettere tutto in discussione, di inventarsi un altro mondo. Il nostro “immaginare” non è irrilevante.

Il suo ultimo progetto è un “format” cinematografico dedicato al pubblico teatrale, nel senso che ricostruisce alcuni momenti di vita di un gruppo di spettatori nelle ventiquattro ore successive alla visione di uno spettacolo. Com’è nata quest’idea?

Esistono due versioni del film, una realizzata ad Atene (The Audience) e una a Buenos Aires (El Público), città con una storia diversa ma parimente martoriate dalla crisi economica e da misure di austerità, dalla corruzione politica interna e da forti pressioni esterne. Viste da vicino, però, ognuna rivela caratteristiche del tutto originali. Quando su invito della Onassis Foundation ho cominciato a lavorare in Grecia per una nuova produzione site-specific, ho scoperto che ad Atene esiste un sistema capillare di cinema all’aperto. Non sono posti nostalgici, o attrezzati per occasioni speciali, ma luoghi estremamente ordinari, popolari, in cui anche i giovani si ritrovano con naturalezza per vedere dei film. Fino a che punto la visione di un’opera incide sulla nostra vita? Può cambiarla davvero? Il pubblico può diventare davvero protagonista di ciò che vede? Me lo sono domandato in relazione al nostro fare teatro.

Nella prima scena vediamo un gruppo di persone sedute in platea inquadrate all’inizio e alla fine di uno spettacolo di cui non sappiamo niente.

Ogni microstoria raccontata nei due film è una specie di cortometraggio dedicato a uno spettatore colto in un momento preciso nel giorno successivo a quello in cui ha visto lo spettacolo; le storie sono variegate, alcune più ordinarie, altre meno, ma tutte ruotano attorno al momento in cui il protagonista parla con qualcun altro della pièce che ha visto e la racconta secondo il suo punto di vista. Dai diversi racconti il pubblico vero (quello che assiste al film) può ricostruire la trama complessiva dello spettacolo, accorgendosi di quanto ogni spettatore ne abbia memorizzato certi passaggi più di altri, e tra l’altro a modo suo.

Sono storie vere?

No, sono inventate e girate con attrici e attori. Io scrivo fiction, non ho mai fatto teatro documentario, benché ne apprezzi molto certe riuscite. Naturalmente faccio molte ricerche sul campo, giro per i quartieri, intervisto persone. Cerco di intercettare lo spirito di un luogo. Proprio in quanto strettamente personali, le storie raccontate in qualche modo finiscono per restituire un affresco vivo della città, della situazione sociale e politica. Buenos Aires è casa mia e quindi mi è venuto più naturale raccontarla, per la versione ateniese mi ha affiancato una scrittrice greca che durante il lavoro mi aiutava a capire se fosse centrato o meno quello che scrivevo.

Come mai il film girato ad Atene non è ancora stato proiettato in Grecia?

Come dicevo, l’opera è nata nel 2019 su commissione della Onassis Foundation, che mi ha chiesto di focalizzarmi soprattutto su Exarchia, un quartiere di Atene molto particolare, anarchico, alternativo. L’idea era di presentare il film nell’ambito di un festival progettato interamente in quel quartiere. Con l’avvicinarsi delle elezioni poliriche, a Exarchia hanno cominciato a moltiplicarsi gli scontri con la polizia, perciò la Fondazione ha ritenuto quella zona troppo pericolosa per il pubblico e ha cancellato il festival e di conseguenza la proiezione di The Audience. Aspettano un momento più propizio per presentare il nostro film. Speriamo che prima o poi arrivi!

In entrambi i film è molto evidente quello che ha detto a proposito di personaggi sempre in movimento che desiderano cambiare la propria vita. Una delle short stories contenute nella versione greca racconta di un uomo che conduce una vita apparentemente ordinaria, con un lavoro, una moglie, dei figli. La visione dello spettacolo la sera prima e il ritrovamento casuale di un bigliettino che lo riporta alla sua giovinezza segnata da ideali anarchici sembrano mettere in crisi la sua serenità. È come se il teatro, l’avere assistito alla vicenda di una donna che a rischio della sua vita ha salvato molte persone durante l’occupazione nazista, avesse in qualche modo riacceso in lui la necessità di fare qualcosa di più incisivo.

O viceversa l’avesse fatto sprofondare in una tragica nostalgia verso qualcosa che non esiste più. Io penso che il teatro possa risvegliare parti sopite dentro di noi, o farci notare cose che ci stanno attorno e a cui non avevamo dato peso prima, ma quel che succede dopo è un mistero. Nel caso del personaggio che ha citato lei, ci troviamo davanti a una persona che ricorda all’improvviso la sua giovinezza e il sentimento rivoluzionario che la caratterizzava. Quindi la sua interpretazione è valida, ma è pur vero che quest’uomo quel sentimento non potrà ritrovarlo identico a com’era, perché il passato non torna. Un’opera d’arte può davvero liberare dei sentimenti nascosti, ma talvolta assieme ad essi rivela i nostri limiti. Questa condizione dolceamara mi piace molto.

Secondo lei come mai chi fa teatro ha così tanta fiducia nella possibilità di incidere sulla vita di qualcun altro?

Forse è banale ribadire che il teatro è l’unico linguaggio che ha senso solo se il pubblico risponde a una chiamata. Ogni sguardo, colpo di tosse, movimento che arriva dalla platea ha un effetto su quello che avviene sul palcoscenico tra gli attori. Gli spettatori sanno che hanno davanti qualcosa di fragile, e questo cambia il modo di stare in relazione a un’opera, il tipo di investimento.

A proposito di attori: lei come intende il mestiere di recitare?

Il mio approccio è molto tradizionale. Non ho una vera e propria compagnia ma ho rapporti consolidati con una dozzina di attrici e attori argentini con cui collaboro regolarmente. Sono tutti professionisti bene allenati a interpretare dei personaggi, con una grande tecnica, capaci di intervenire creativamente durante le prove che generalmente durano molti mesi. Quest’ultimo aspetto è fondamentale perché il testo che metto nelle loro mani assomiglia quasi sempre a una raccolta di storie brevi, racconti ad alto tasso di letterarietà. Il primo problema che si pone quindi è quello di trovare una teatralità a quel che ho scritto e per farlo occorrono attrici e attori con molte risorse. Poi naturalmente ci sono delle eccezioni. Nei film, per esempio, sono coinvolti anche non professionisti. Ma sono eccezioni, appunto.

L’uso dei puppets in Arde brillante en los bosques de la noche è un’eccezione ancora più notevole.

In quel caso l’uso dei burattini come doppio degli interpreti era dettato dalla drammaturgia. Lo spettacolo parlava delle risonanze politiche e artistiche della Rivoluzione Russa nel mondo contemporaneo. Ispirandomi alla figura di Alexandra Kollontai, femminista sovietica i cui testi affrontano questioni davvero molto attuali legate alla libertà dei corpi e al modo in cui la società modella l’identità, ho scritto una serie di storie che contenevano altre storie (come in una sorta di matrioska) per mostrare fino a che punto ogni vita può influenzarne altre generando cambiamento. I puppets, manipolati dalle attrici e dagli attori, ci servivano per rendere ancora più esplicita la domanda su chi controlla chi, e dunque l’uso dei corpi (in particolare delle donne) come terreno di scontro, di esercizio del potere.

Ci sono artisti, opere, libri da cui trae particolare ispirazione?

Ci sono molti colleghi e colleghe che stimo (in questo momento mi vengono in mente Lola Arias, Toshiki Okada, Rimini Protokoll) ma non direi che ispirano il mio lavoro, perché hanno approcci completamente diversi dal mio. Frequento molto il cinema, in particolare i film della Nouvelle Vague. Adesso per esempio sto lavorando per mettere in scena una Madama Butterfly e ho rivisto Hiroshima mon amour di Alain Resnais, per osservare ancora una volta la grande intelligenza con cui fa incontrare mondi diversi, intrecciando una vicenda amorosa alla storia collettiva. Ad ogni modo, il linguaggio che mi influenza di più è sicuramente quello delle arti visive, in particolare l’arte concettuale. Forse perché mi aiuta a pensare in un modo diverso da quello in cui penso di solito, a mettere a fuoco le idee, dentro il mare di storie in cui mi muovo.