Bifo

Felicità o barbarie

Conversazione con Franco “Bifo” Berardi, filosofo e saggista

di Rossella Menna

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Nei suoi libri sostiene che il sentimento più diffuso tra le generazioni di trenta-quarantenni di oggi è l’umiliazione. Sono d’accordo. Ci sentiamo frustrati dal non essere all’altezza dell’idea che avevamo di noi stessi, del destino speciale a cui eravamo certi di avere diritto se ce l’avessimo messa tutta. Chi ci ha convinti che bastava l’impegno e una volontà di ferro per conquistare il nostro posto al sole nel mondo? Chi ci ha convinti che se non troviamo quel posto non valiamo niente?

Quelli che ci hanno convinto del fatto che la libertà d’impresa, la competizione e la meritocrazia siano valori positivi. Si è trattato di un inganno criminale, che ci ha disarmato di fronte all’attacco che il neoliberismo ha condotto contro la civiltà sociale.

In che senso?

Dal punto di vista evolutivo, il neoliberismo ha prodotto effetti che sono peggiori di quelli che aveva prodotto il nazismo, ha lavorato più nel profondo, ha preparato una catastrofe che può essere peggiore. Ora tutti cominciano a capire che la promessa neoliberista è una trappola. Io ho insegnato fino a tre anni fa, e fino ad allora ho sempre sostenuto che l’epoca in cui viviamo è spaventosa da un punto di vista etico, estetico, esistenziale, che ci son stati tempi peggiori per freddo e per fame (almeno nella nostra parte del mondo), ma dal punto di vista dell’umiliazione mai abbiamo sofferto come oggi. Tuttavia, fino a quando insegnavo e fino a quando ho scritto Futurability (Verso 2017 e in Italia Nero 2018, ndr) ero convinto che la Storia non si fosse ancora chiusa, che permanesse una possibilità di riscatto che si giocava tutta sul terreno del rapporto tra tecnologia e organizzazione sociale e culturale, e che quella porta potesse essere riaperta da una riattivazione politica e poetica (cioè psichica) del corpo collettivo. Ora non lo credo più.

Come lei stesso ha scritto in molte occasioni, non è mai corretto affermare che la possibilità si sia estinta.

Vero. La possibilità non si estingue mai. Tuttavia, il grado di probabilità politica si è ridotto a tal punto che non riesco più a indicarla come possibilità realizzabile. Negli ultimi mesi ho visto quattro film che mi hanno in qualche modo fatto sentire autorizzato a confessare quello che penso da tempo ma non osavo dire in giro: Joker di Todd Phillips, Parasite di Bong Joon-ho, Sorry we missed you di Ken Loach e Cafarnao di Nadine Labaki. Quest’ultimo, per esempio, pone finalmente una questione centrale, quella della procreazione, a cui non possiamo più sfuggire. Io non sono un genitore, e non lo sono intenzionalmente, perché credo che procreare sia un’azione irresponsabile. Sono contento che se ne cominci a discutere pubblicamente. In Staying With the Trouble del 2016 (in Italia Chthulucene, Nero 2019, ndr), Donna Haraway ammette che il movimento femminista ha evitato di porre il problema della procreazione per evitare di rendersi complice delle politiche di controllo della popolazione come quella cinese. Ora però, dice Haraway, non si può più tacere, perché di tutte le catastrofi che si stanno concentrando intorno al genere umano in questo momento, quella che rende tutte le altre definitive è l’esplosione demografica che caratterizza metà del nostro pianeta (proprio mentre quella parte di mondo che fino a oggi ha dominato assiste terrorizzata a una tendenza demografica opposta, ovvero al proprio declino). I demografi, spiega la filosofa, ci dicono che arriveremo a undici miliardi di persone nella seconda metà del secolo, ma per allora si sarà ridotto lo spazio abitabile sulla Terra. In gran parte del continente euroasiatico, cinquanta gradi sono diventati la normalità per tre mesi all’anno, le coste stanno diventando inabitabili… Insomma: saremo molto presto di più e in uno spazio ridotto, e tutto questo è garanzia, certezza di estinzione.

Perché non riusciamo a riorganizzarci nonostante la consapevolezza di ciò che ci sta succedendo?

Perché la potenza del tecnologico ha quasi interamente assorbito le energie della soggettività. Non vi è più lo scarto tra la macchina e la soggettività che la dinamizza. Il soggetto non è più capace di distinguere se stesso dalla macchina e quindi di sabotarla affinché progredisca aprendo margini di libertà. Le forze del lavoro, e di quello cognitivo in particolare, sono progressivamente trasformate dagli automatismi e tendono a farsi esse stesse automi per poter sopravvivere. Insomma, noi dovremmo districarci dall’algoritmo e riprogrammare l’algoritmo stesso.

Eppure, io non posso fare a meno di credere che, come lei stesso scrive citando Keynes, l’inevitabile alla fine non si verifica perché prevale l’imprevedibile, l’inatteso.

Certo! Magari, in questo preciso momento a Giacarta un ragazzino di diciassette anni sta scoprendo come ottenere energia pulita tramite un processo impensabile. Cambierebbe il nostro destino. Non è impossibile. Come dicevo, siamo filosoficamente tenuti a ribadire l’inestinguibilità del possibile, ma politicamente siamo tenuti a cartografare il “molto probabile”, ovvero l’estinzione.

L’estinzione di cosa? Dell’uomo? Della Terra?

Le condizioni fisiche per la sopravvivenza del ceppo umano non si cancelleranno del tutto, e d’altra parte l’umano è sufficientemente dotato per riuscire a proteggere qualcuno dalla fine (un bunker, un viaggio interstellare). Dunque, non è il genere umano a estinguersi. E non è neppure la civiltà a estinguersi, perché questa è destinata a persistere nell’automa che sopravvivrà in una forma separata dall’umano. La civiltà sopravvive nell’automa intelligente e l’uomo sopravvive in condizione separata dall’intelligenza automatizzata. A sparire, insomma, sarà la civiltà umana, quella che vede unito il corpo e la mente. È una barbarie che stiamo già vedendo: l’umanità de-mente, letteralmente separata dalla sua mente. Civiltà disumana, umanità barbarica. È la tendenza che si va delineando dal 2016, l’anno della Brexit, della vittoria di Trump e di Narendra Modi…

Quale azione politica avrebbe senso intraprendere (e da parte nostra sostenere)? Nelle sue parole risuonava evidentemente quel profetico Socialismo o barbarie di Rosa Luxemburg. In Secondo Avvento (DeriveApprodi 2018) ha scritto che solo un ritorno della coscienza internazionalista potrebbe evitare una prospettiva apocalittica. Crede ancora nella possibilità che il comunismo torni a essere una prospettiva credibile?

Se una possibilità esiste, per me sta nel pieno dispiegamento delle possibilità del sapere e della tecnologia in condizioni di uguaglianza, ovvero di redistribuzione della ricchezza, e di frugalità. Entro quelle condizioni il comunismo resta possibile. Il primo passo sarebbe quello di una riattivazione della solidarietà sociale. Ma tutto questo è letteralmente impossibile in una società dominata dal principio della competizione, degli automatismi e dell’astrazione finanziaria, perché neppure la politica può più decidere di invertire il paradigma. Nella migliore delle ipotesi i politici tentano di fare una cosa che non si può fare: conciliare l’impegno per migliorare l’ambiente e stimolare la crescita economica. Questo binomio non ha senso logico.

“È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Mark Fisher ha riassunto bene la nostra condizione.

Il suo unico difetto era l’indole malinconica. Bisogna avere un’energia felice per dire la verità.

E dunque, di fronte a questo scenario, a che serve cartografare? Non sarebbe forse il caso di alimentare immaginari di altro segno che possano nutrire quel “possibile” che potrebbe salvarci? Non sarebbe forse più efficace cercare e mostrare linee di fuga?

Mi fa venire in mente quello che dice Federico Campagna, autore del bellissimo Technic and Magic: the reconstruction of reality (Bloomsbury London 2018, ndr), in un nuovo libro sulla “profezia” che sta scrivendo in questi mesi. Ebbene, lui dice che nella storia della modernità il pensiero filosofico aveva essenzialmente il compito di dire come si può vivere bene. Ora invece ha il compito di dire come si può morire bene, di creare le condizioni per una felicità nel corso dell’estinzione consapevole, che costituisca anche eredità per chi sopravvivrà. Perché, come dicevo, il genere umano è destinato a sopravvivere alla sua stessa civiltà. La barbarie dilagherà dovunque, ma qualcuno potrà sottrarsene e coltivare un nuovo umanesimo. Perciò il compito politico, estetico, culturale è proprio quello di essere felici!

Quindi dobbiamo essere felici nonostante la consapevolezza della catastrofe?

Dobbiamo analizzare con onestà la tendenza inscritta nel presente, poi essere in grado di intravedere in essa controtendenze e linee di fuga (essere felici) e infine creare le condizioni affinché se c’è qualcosa che davvero sfugge alla tendenza possa arricchirsi sempre di più. Dobbiamo dire la verità e al tempo stesso produrre condizioni mentali per la felicità collettiva. L’autonomia in fondo è questo: essere felici in condizioni che non rendono possibile la felicità.

In The Good Fight, web serie statunitense dichiaratamente anti-trumpista, la protagonista, avvocato democratico ossessionato dal Presidente repubblicano, si convince a un certo punto che l’unico modo per sopravvivere alla follia che dilaga non è lottare per salvare il mondo in astratto, ma proteggere il senso nel suo spazio, concentrarsi sulla propria pratica quotidiana. Forse è proprio l’astrazione da un fare concreto e visibile, da una qualche forma di artigianato che ostacola la nostra felicità?

La disperazione è la sola posizione intellettuale adeguata al nostro tempo, ma l’amicizia è la forza che trasforma la disperazione in gioia. Là dove la comunicazione tra umani coscienti si rende possibile allora c’è felicità. L’amicizia, la complicità, come hanno già detto Deleuze e Guattari, creano uno spazio in cui il mondo, l’intera storia, si può riprodurre come un ologramma attraverso un atto di linguaggio.