1996
Per un teatro pubblico popolare
Il problema della cultura in Italia va risolto contestualmente ai problemi del lavoro, della sanità, della scuola e della corretta comunicazione.
L’acquisizione della falsità delle “magnifiche sorti e progressive” — salutare ed efficace mezzo di demistificazione della linearità della storia — avrebbe dovuto portare ad una riappropriazione, da parte dell’uomo, del suo destino. Al contrario, sembra che abbia contribuito ad una sua ulteriore alienazione, per cui, se tutto prima era considerato certo, oggi si esagera nel definire tutto problematico, debole; persino le cose più banali e semplici vengono complessificate fino ad una sorta di paralisi, in cui ogni agire presuppone una catena di domande e di innumerevoli risposte, sempre più problematiche, che ci fa scaturire ironicamente la domanda delle domande: che ci interroghiamo a fare?
Che tutto sia correlato, dalla piccola cellula all’organismo più complesso, che tutto sia comunicazione, dai vasi sanguigni alla rete chimica ed elettrica del cervello, che tutto l’universo sia un’enorme infrastruttura, non dovrebbe impedirci di agire comunque in piccole zone localizzate, scegliendo di volta in volta, a seconda delle possibilità che la situazione storica permette, ma anche forzando le stesse possibilità, pur nella coscienza che forse tutto ciò non smuoverà di un millimetro la galassia più lontana se ce n’è una più lontana.
Ma, a parte il fatto che alcuni movimenti di pensiero scientifico parlano di ripercussioni macrocosmiche anche a partire da un piccolissimo gesto, quello che voglio dire è che non sempre è valida la formula secondo la quale per eliminare un sintomo occorre prima eliminare la causa: forse è anche possibile che eliminando il sintomo, la causa possa essere indebolita.
Che sulla terra siano tre o quattro centri di potere finanziario a determinare l’economia e la politica dell’intero pianeta, non ci deve fossilizzare nella convinzione che nulla possa essere risolto se non si tolgono prima quei pochi centri. Avere qualche risposta, possedere qualche certezza, non deve farci sentire spaesati in un mondo che della problematicità, del dubbio, della relatività sembra aver fatto una moda di comodo e non una formidabile arma di critica costruttiva.
A noi teatranti Shakespeare ha insegnato che... “c’è un disegno anche nella caduta di un passero”
ma ci ha anche insegnato che... “essere pronti è tutto”.
Essere pronti è tutto: significa aver portato a compimento tutte le potenzialità dell’uomo in un determinato stadio evolutivo, per passare ad un altro: ciò può avvenire per mezzo della cultura dell’essere e non dell’avere, cioè attraverso la trasformazione del corpo stesso dell’uomo, nella sua interezza. La cultura vissuta, agita, sperimentata e non quella dell’informazione e del possesso di conoscenze come mezzo di potere, è la via da percorrere per essere pronti. Questo modo corretto di intendere la cultura è certamente importante e raramente praticato; i motivi di questa non pratica sono svariati: pseudo-cultura di massa, cultura del consenso, disattenzione interessata nei confronti di un progressivo svuotamento di contenuti che diano un senso ed una dignità alla vita, pregiudizi, giochi economici e politici, egoismi, filantropie per ridare un millesimo del maltolto che giustifichi la rapina...
Una cultura dell’essere sarebbe efficace per ristabilire un’esistenza più equa e giusta, e sarebbe naturalmente pericolosa per chi vuole conservare privilegi e squilibri.
Se ciò è vero, non riesco a comprendere come mai quei politici che vogliono realizzare un modo migliore di relazioni umane, sottovalutino l'importanza della cultura, per affidarsi all’immagine e a tutti quegli strumenti che appartengono alla cultura dell’avere. Probabilmente, abbagliati dalla facilità di consenso ottenuta attraverso i media, non riescono a vedere territori vicinissimi a loro, come la nuova arte scenica, praticata in Italia dagli anni Sessanta in poi, che della cultura é cardine essenziale, in un’epoca che sempre più impedisce i rapporti diretti e la partecipazione.
Può darsi che i politici non frequentino il teatro - il teatro logicamente non è obbligatorio - oppure che frequentino quel teatro che teatro non è, ma spettacolo, e che fa parte della cultura dell’immagine, rappresentato da strutture dove, nella maggior parte dei casi - siano esse strutture pubbliche o private, o pubbliche e private insieme - non si fa altro che ripetere l’ovvio o riproporre mistificanti modelli televisivi, privando l’arte scenica della sua forza primaria: lo spaesamento, e quindi lo spiazzamento dai luoghi comuni tramite l’evento teatrale che coinvolge in un unico processo e in uno spazio e in un tempo veramente reali, attori e spettatori per la creazione e prefigurazione di nuovi mondi possibili. La differenza e che lo spettacolo rappresenta il già noto per un ascolto passivo, laddove il teatro ricrea una nostalgia per una vita ultra, da rivendicare poi nel quotidiano. L’arte scenica, quindi, come bellezza che svela la terribilità dell’esistenza per poterla superare, assemblea democratica, paradigma di una democrazia reale, luogo dell’igiene mentale e di previsione di modelli di relazione.
Partendo da questi presupposti, crediamo che si possa fondare un teatro pubblico popolare. Per popolare non intendiamo un abbassamento dell’arte scenica, ma al contrario, un’arte alta e potente, che abbia la forza di abbattere le barriere culturali ed economiche che ancora ingiustamente esistono. La cosidetta “arte d’élite” è un alibi: l’arte diventa d’élite quando l’assenza di una politica culturale ostacola l’incontro tra l’artista ed il suo referente, e questo vale ancor più per le arti sceniche, proprio perché il fondamento dell’arte scenica è quello di essere in mezzo agli uomini, per cui un teatro non può che essere pubblico e popolare, non di profitto e di rappresentazione.
Perché ciò si concretizzi abbiamo bisogno di un sistema di riferimento modificabile a seconda delle situazioni storiche. Questo potrebbe essere un edificio teatrale che, a partire da un "Ministero per l'autonomia culturale", possa diramarsi nei vari territori regionali.
Compito del ministero potrebbe essere un investimento produttivo, non a compartimenti stagni - lirica, prosa, danza, musica - che unifichi con pari dignità le arti sceniche ed intervenga a seconda dei progetti e dei bisogni, mettendo a disposizione dei fondi che permettano una durata funzionale alla progettualità stessa, eliminando cosi la precarietà in cui versa gran parte del teatro, abolendo gli interessi passivi e riequilibrando gli oneri fiscali e sociali. Le regioni dovrebbero intervenire con strutture che rendano le città culturalmente policentriche, creando sale di quartiere ed edifici che uniscano produzione, distribuzione, didattica, sia in grandi che in piccoli centri abitati. Degli osservatori competenti e super partes potrebbero trasmettere al ministero tutte quelle informazioni utili ad agevolare e rendere trasparente, snellendo il più possibile la burocrazia, il buon funzionamento delle strutture stesse.
Trattandosi di arte, e quindi di un bisogno fondamentale dell’uomo, le valutazioni dei risultati non devono basarsi su criteri utilitaristici, ma su criteri che tengano conto della partecipazione attiva dei cittadini a processi creativi dai quali sono stati finora esclusi, con gravi conseguenze etiche e politiche.
In questo sistema la stanzialità va coniugata alla distribuzione, da intendersi non come effimero vagabondaggio, ma come nomadismo finalizzato all’incontro di artisti diversi con diversi territori.
Bisogna rovesciare il rapporto artista-organizzazione: l'organizzazione deve essere un mezzo per realizzare eventi teatrali condivisi, e non il fine; se l’organizzazione è il fine, fatalmente diventa un centro di potere, che usa l’artista e la sua opera come merce indifferenziata. La base di un edificio teatrale deve essere un organismo di tecnici, operatori culturali, attori, autori, artisti ugualmente tesi allo stesso scopo: l’incontro attore-spettatore, per una trasformazione reciproca e per la creazione di idee che possano scaturire da questa bipolarità, presupposto essenziale del teatro.
Spetta ai poeti innestarsi nella storia, tocca ai politici, aldilà delle maggioranze governative, garantire la loro autonomia, concretamente e non in astratto.
LEO DE BERARDINIS
Artistic Direction
July 5 - 14, 1996
Il problema della cultura in Italia va risolto contestualmente ai problemi del lavoro, della sanità, della scuola e della corretta comunicazione.
L’acquisizione della falsità delle “magnifiche sorti e progressive” — salutare ed efficace mezzo di demistificazione della linearità della storia — avrebbe dovuto portare ad una riappropriazione, da parte dell’uomo, del suo destino. Al contrario, sembra che abbia contribuito ad una sua ulteriore alienazione, per cui, se tutto prima era considerato certo, oggi si esagera nel definire tutto problematico, debole; persino le cose più banali e semplici vengono complessificate fino ad una sorta di paralisi, in cui ogni agire presuppone una catena di domande e di innumerevoli risposte, sempre più problematiche, che ci fa scaturire ironicamente la domanda delle domande: che ci interroghiamo a fare?
Che tutto sia correlato, dalla piccola cellula all’organismo più complesso, che tutto sia comunicazione, dai vasi sanguigni alla rete chimica ed elettrica del cervello, che tutto l’universo sia un’enorme infrastruttura, non dovrebbe impedirci di agire comunque in piccole zone localizzate, scegliendo di volta in volta, a seconda delle possibilità che la situazione storica permette, ma anche forzando le stesse possibilità, pur nella coscienza che forse tutto ciò non smuoverà di un millimetro la galassia più lontana se ce n’è una più lontana.
Ma, a parte il fatto che alcuni movimenti di pensiero scientifico parlano di ripercussioni macrocosmiche anche a partire da un piccolissimo gesto, quello che voglio dire è che non sempre è valida la formula secondo la quale per eliminare un sintomo occorre prima eliminare la causa: forse è anche possibile che eliminando il sintomo, la causa possa essere indebolita.
Che sulla terra siano tre o quattro centri di potere finanziario a determinare l’economia e la politica dell’intero pianeta, non ci deve fossilizzare nella convinzione che nulla possa essere risolto se non si tolgono prima quei pochi centri. Avere qualche risposta, possedere qualche certezza, non deve farci sentire spaesati in un mondo che della problematicità, del dubbio, della relatività sembra aver fatto una moda di comodo e non una formidabile arma di critica costruttiva.
A noi teatranti Shakespeare ha insegnato che... “c’è un disegno anche nella caduta di un passero”
ma ci ha anche insegnato che... “essere pronti è tutto”.
Essere pronti è tutto: significa aver portato a compimento tutte le potenzialità dell’uomo in un determinato stadio evolutivo, per passare ad un altro: ciò può avvenire per mezzo della cultura dell’essere e non dell’avere, cioè attraverso la trasformazione del corpo stesso dell’uomo, nella sua interezza. La cultura vissuta, agita, sperimentata e non quella dell’informazione e del possesso di conoscenze come mezzo di potere, è la via da percorrere per essere pronti. Questo modo corretto di intendere la cultura è certamente importante e raramente praticato; i motivi di questa non pratica sono svariati: pseudo-cultura di massa, cultura del consenso, disattenzione interessata nei confronti di un progressivo svuotamento di contenuti che diano un senso ed una dignità alla vita, pregiudizi, giochi economici e politici, egoismi, filantropie per ridare un millesimo del maltolto che giustifichi la rapina...
Una cultura dell’essere sarebbe efficace per ristabilire un’esistenza più equa e giusta, e sarebbe naturalmente pericolosa per chi vuole conservare privilegi e squilibri.
Se ciò è vero, non riesco a comprendere come mai quei politici che vogliono realizzare un modo migliore di relazioni umane, sottovalutino l'importanza della cultura, per affidarsi all’immagine e a tutti quegli strumenti che appartengono alla cultura dell’avere. Probabilmente, abbagliati dalla facilità di consenso ottenuta attraverso i media, non riescono a vedere territori vicinissimi a loro, come la nuova arte scenica, praticata in Italia dagli anni Sessanta in poi, che della cultura é cardine essenziale, in un’epoca che sempre più impedisce i rapporti diretti e la partecipazione.
Può darsi che i politici non frequentino il teatro - il teatro logicamente non è obbligatorio - oppure che frequentino quel teatro che teatro non è, ma spettacolo, e che fa parte della cultura dell’immagine, rappresentato da strutture dove, nella maggior parte dei casi - siano esse strutture pubbliche o private, o pubbliche e private insieme - non si fa altro che ripetere l’ovvio o riproporre mistificanti modelli televisivi, privando l’arte scenica della sua forza primaria: lo spaesamento, e quindi lo spiazzamento dai luoghi comuni tramite l’evento teatrale che coinvolge in un unico processo e in uno spazio e in un tempo veramente reali, attori e spettatori per la creazione e prefigurazione di nuovi mondi possibili. La differenza e che lo spettacolo rappresenta il già noto per un ascolto passivo, laddove il teatro ricrea una nostalgia per una vita ultra, da rivendicare poi nel quotidiano. L’arte scenica, quindi, come bellezza che svela la terribilità dell’esistenza per poterla superare, assemblea democratica, paradigma di una democrazia reale, luogo dell’igiene mentale e di previsione di modelli di relazione.
Partendo da questi presupposti, crediamo che si possa fondare un teatro pubblico popolare. Per popolare non intendiamo un abbassamento dell’arte scenica, ma al contrario, un’arte alta e potente, che abbia la forza di abbattere le barriere culturali ed economiche che ancora ingiustamente esistono. La cosidetta “arte d’élite” è un alibi: l’arte diventa d’élite quando l’assenza di una politica culturale ostacola l’incontro tra l’artista ed il suo referente, e questo vale ancor più per le arti sceniche, proprio perché il fondamento dell’arte scenica è quello di essere in mezzo agli uomini, per cui un teatro non può che essere pubblico e popolare, non di profitto e di rappresentazione.
Perché ciò si concretizzi abbiamo bisogno di un sistema di riferimento modificabile a seconda delle situazioni storiche. Questo potrebbe essere un edificio teatrale che, a partire da un "Ministero per l'autonomia culturale", possa diramarsi nei vari territori regionali.
Compito del ministero potrebbe essere un investimento produttivo, non a compartimenti stagni - lirica, prosa, danza, musica - che unifichi con pari dignità le arti sceniche ed intervenga a seconda dei progetti e dei bisogni, mettendo a disposizione dei fondi che permettano una durata funzionale alla progettualità stessa, eliminando cosi la precarietà in cui versa gran parte del teatro, abolendo gli interessi passivi e riequilibrando gli oneri fiscali e sociali. Le regioni dovrebbero intervenire con strutture che rendano le città culturalmente policentriche, creando sale di quartiere ed edifici che uniscano produzione, distribuzione, didattica, sia in grandi che in piccoli centri abitati. Degli osservatori competenti e super partes potrebbero trasmettere al ministero tutte quelle informazioni utili ad agevolare e rendere trasparente, snellendo il più possibile la burocrazia, il buon funzionamento delle strutture stesse.
Trattandosi di arte, e quindi di un bisogno fondamentale dell’uomo, le valutazioni dei risultati non devono basarsi su criteri utilitaristici, ma su criteri che tengano conto della partecipazione attiva dei cittadini a processi creativi dai quali sono stati finora esclusi, con gravi conseguenze etiche e politiche.
In questo sistema la stanzialità va coniugata alla distribuzione, da intendersi non come effimero vagabondaggio, ma come nomadismo finalizzato all’incontro di artisti diversi con diversi territori.
Bisogna rovesciare il rapporto artista-organizzazione: l'organizzazione deve essere un mezzo per realizzare eventi teatrali condivisi, e non il fine; se l’organizzazione è il fine, fatalmente diventa un centro di potere, che usa l’artista e la sua opera come merce indifferenziata. La base di un edificio teatrale deve essere un organismo di tecnici, operatori culturali, attori, autori, artisti ugualmente tesi allo stesso scopo: l’incontro attore-spettatore, per una trasformazione reciproca e per la creazione di idee che possano scaturire da questa bipolarità, presupposto essenziale del teatro.
Spetta ai poeti innestarsi nella storia, tocca ai politici, aldilà delle maggioranze governative, garantire la loro autonomia, concretamente e non in astratto.
LEO DE BERARDINIS
Artistic Direction
July 5 - 14, 1996